Campionato 1985-86: rilancio in grande stile

Boniek, per dimenticare

Non c' é più il divino Paulo Roberto ma Viola regala ai romanisti l'ex juventino. Arrivano anche Gerolin, Desideri e Tovalieri mentre Sormani diventa secondo di Eriksson. La squadra "c' é" ed é pronta alla grande battaglia con Madama

Agostino Di Bartolomei, dall' esilio, guarda la sua Roma povera e non sa darsi pace. «Ago» stenta ad entrare in una dimensione diversa da quella giallorossa: si crede ancora il capitano, si sente sconfitto, insieme alla sua squadra che idealmente non ha mai abbandonato. Sintetizza così la situazione: «Dopo il Liverpool, il diluvio». E spiega: «La Roma dello scudetto fu il risultato di una felice programmazione, di un lavoro serio e appassionato avviato da Viola fin dalla stagione 79/80. Dopo la finale con il Liverpool, sfortunata ma prestigiosa, è scemata la tensione generale intorno alla squadra. Mi riferisco alla società, ma anche al pubblico. Non vivo più a Roma ma mi sembra di capire che l'entusiasmo sia diminuito, il pubblico stia abbandonando una squadra che per anni aveva dato spettacolo. In altre parole, con Liedholm si è chiuso un ciclo». Una analisi di una esattezza quasi profetica. Di Bartolomei aveva intuito che la Roma aveva prodotto il massimo sforzo, che la finale aveva rappresentato il punto più alto della parabola. Solo un successo in Coppa Campioni avrebbe potuto, sullo slancio, mantenere la Roma ai vertici. Lui, quella sera con il Liverpool, la strada l'aveva aperta, battendo il rigore per primo e fulminando il portiere avversario. Tancredi, emerito specialista, una volta aveva detto: «C'è un solo rigore che non è possibile parare: quello battuto da Di Bartolomei, perchè alla precisione Agostino unisce una potenza che impedisce qualsiasi intervento». Poi Conti e Graziani, quella sera storica, calciarono alle stelle, e il cerchio si chiuse. Se Di Bartolomei aveva intuito la fine, Viola l'aveva quasi toccata con mano, ecco perchè aveva scelto Sven Eriksson per trovare un'altra strada, per portare la Roma verso la nuova frontiera. La prima stagione giallorossa però, come abbiamo visto, aveva costituito per l'allenatore svedese una marcia di avvicinamento estenuante, sofferta: da lacerare le vesti e le carni.

Zibì per dimenticare Falcao

Viola sapeva anche che la partenza di Falcao avrebbe prodotto uno «shock» difficile da smaltire. Il «partito Falcao», agguerrito per numeri e mezzi, non intendeva smobilitare. Il fatto che Paolo Roberto, nel campionato precedente, avesse giocato solo quattro partite per poi andare a curarsi in giro per il mondo, non aveva indotto alla rassegnazione, non aveva favorito il distacco: al contrario, aveva acuito i rimpianti e alimentato le polemiche che adesso investivano il presidente, lo stringevano come un cerchio di fuoco. Un assedio che poteva essere rotto solo con l'acquisto di un grande nome: un personaggio capace, se mai sarebbe stato possibile, di far dimenticare Falcao. La presidenza di Dino Viola, come ormai ben sappiamo, era stata caratterizzata da grandi battaglie ideologiche, o meglio di principio. Viola era capace di impuntarsi su un particolare, un cavillo di regolamento, oppure di speculare su una promessa mancata: e di condurre su quelle basi fragili gigantesche battaglie. Gli piaceva scoprire il punto debole dell'avversario, e demolirlo per sfinimento. Due di questi tornei ad oltranza, dal punto di vista regolamentare, erano stati quelli che avevano portato prima al tesseramento di Tonino Cerezo, per il quale Viola aveva mandato in «tilt» il Palazzo, e poi l'ingaggio di Sven Eriksson. Un'altra battaglia vinta, sul piano legale, sarebbe stato proprio quella con Falcao. Una volta invece Viola era stato sconfitto: quando, avendo deciso di ingaggiare Zibì Boniek, era stato beffato dalla Juventus, che gli aveva portato via il polacco da sotto il naso. Potenza della Fiat, perchè quella volta era stato un fatto più politico che sportivo. L'uomo scelto per far dimenticare Falcao adesso era proprio lui, Zibì Boniek reduce dai trionfi juventini, raggiunti in coppia con Michel Platini. Fu una mossa indovinata, dal punto di vista psicologico.
L'ingaggio di Boniek fu accolto con soddisfazione dai tifosi, il polacco godeva di una consolidata fama di vincitore, portava nella Roma una fragrante sensazione di rivincita. Un brivido nuovo percorreva il mondo romanista. Il capitano era adesso Carlo Ancelotti, che così commentò l'avvenimento: «Boniek è un'autentica forza della natura, e quando si scatena sa trascinare tutti. Grazie a lui sapremo rendere più verticale la manovra della squadra, ed è quello che ci voleva. Sento che con Boniek andremo lontano, molto lontano». Ma non fu quella, la sola mossa di Dino Viola, che d'accordo con Eriksson ingaggiò anche iljolly Manuel Gerolin; inoltre l'allenatore avrebbe avuto a disposizione Stefano Desideri, un poderoso elemento di manovra e di sfondamento, che assunse un ruolo di primo piano. Infine c'era Sandro Tovalieri, un ragazzo di Pomezia con spiccate doti di realizzatore. Anche tra i tecnici era cambiato qualcosa: Clagluna aveva mostrato di non gradire il ruolo di «alter ego» di Eriksson ed era stato sostituito da Angelo Benedetto Sormani. C'era poi stato un importante ritorno: quello del preparatore atletico, il prof. Colucci cui la Roma doveva molto. La «squadra della riscossa», così possiamo definire quella Roma, era dunque composta secondo questo preciso 4-3-3: Tancredi - Oddi, Nela, Righetti,-{}erolin- Ancelotti, Cerezo, GianniniConti, Pruzzo, Boniek. A disposizione Graziani, Tovalieri, Di Carlo, Desideri, Lucci. Tutti guardavano Boniek, ma l'uomo-chiave era piuttosto Giannini, e lo sarebbe stato per altri dieci anni e più. La Roma cercava in lui il nuovo leader. Lo è stato? dopo tanti anni, la discussione è ancora aperta.

Arriva il Lecce, che botto!

La riscossa ci fu, nel senso che la Roma arrivò seconda, naturalmente alle spalle della Juventus. Ma fu una riscossa ambigua, bugiarda, che si concluse con una rotta precipitosa. Una caduta giù, a capofitto nel baratro. Un fatto sensazionale, che non solo la storia della Roma, ma anche quella del calcio italiano non aveva mai registrato. Un'avventura grandiosa, conclusa con un epilogo donchisciottesco, detto con tutto il rispetto che i giocatori meritarono: loro furono le prime vittime dell'incredibile vicenda, perchè tanto avevano dato che gli era rimasta solo l'energia per respirare. Le cose andarono così: la Roma a un certo punto si trovò staccata di otto punti dalla Juventus. Eravamo oltre metà campionato, quindi ormai tutto appariva scontato, destinato all'archivio. Non c'era stata gloria, cosìsembrava, neppure quella volta: altro che squadra della riscossa. E invece la riscossa ci fu, addirittura violenta. La Roma sembrò ad un certo punto morsa dalla tarantola, cominciò a stendere tutti quelli che le capitavano a tiro; nel confronto diretto travolse la Juventus con un 3-0 che i bianconeri ancora si sentono nelle ossa. Per quanto possa sembrare impossibile, quegli otto punti furono tutti annullati: il 13 aprile '86, dopo aver vinto a Pisa 4-2, la Roma aveva acciuffato la Juventus fermata sullo 0-0 dalla Sampdoria. Ormai era il gatto che scherzava con il topo, la Juve non avrebbe avuto scampo. Tanto più che mancavano due sole partite alla fine e la Roma, la settimana successiva, avrebbe incontrato il Lecce, ultimo in classifica e già retrocesso: e con un solo punto conquistato in trasferta. Un passo indietro, poi torniamo al Lecce e a quel botto di cui ancora si sente l'eco.

Tratto da La mia Roma del Corriere dello Sport

 

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